Fabio Vento

Appunti e contrappunti

Twin Peaks e il cupo nichilismo del Male

Nel 1991 la serie di Twin Peaks, giunta alla seconda stagione, traballava. La rivelazione dell’assassino di Laura Palmer, contro la volontà dello stesso David Lynch, aveva estinto il cuore pulsante della sua mitologia, e il rischio di una cancellazione era dietro l’angolo.

Per l’ultimo episodio, allora, fu lo stesso Lynch a tornare alla regia. E lo fece con un’idea che, in qualche modo, sovvertiva il fondamento stesso della serie. Cosa accadrebbe – dev’essersi chiesto – se quel Male tante volte evocato negli spiriti della Loggia Nera prendesse possesso proprio di lui, del protagonista, Dale Cooper, eroe buono e compassionevole?

Ancora oggi, dopo tanti anni, le ultime scene della puntata sono tra le più inquietanti, per quanto riescono a materializzare in pochi gesti.

La “caduta” di Cooper avviene proprio in quel momento, mentre – gli occhi persi nel vuoto – riversa l’intero contenuto del dentifricio nel lavandino. Spremere, svuotare, annichilire: si sorprende, quasi, di poterlo fare. E soltanto per questo lo fa.

Il nichilismo etico si fa, in un attimo, nichilismo ontologico. Nulla ha più importanza semplicemente perché non alberga più, in lui, una mente capace di misura, di cura. In una parola, di amore.

Di lì a poco, la temuta cancellazione della serie: per uno scherzo del destino, allora, Twin Peaks si chiuderà proprio così. Risuonando una volta di più come severa ammonizione rispetto ai nostri comportamenti individuali.

Occorreranno più di 25 anni per ritrovare, nel revival della serie, il nostro eroe. E seguire, fiduciosi, la sua lenta risalita dall’oscurità.

Tra le righe del foglio…

Ci sono momenti in cui non scrivo su questo blog. Non perché non avrei niente da dire, beninteso: in realtà ci sarebbe tanto da raccontare. Nel mio passato più o meno recente sono accadute tante cose a cui dedicherei volentieri parole e riflessioni. Ma la loro natura privata mi impone, nel rispetto delle altre persone coinvolte, un doveroso silenzio.

Vi dico però una cosa. Provate, se volete, a pensare il mio blog come a un vero e proprio diario di carta. Ecco: vi assicuro che, se osservaste con attenzione tra le righe del foglio, trovereste i segni appena visibili dell’inchiostro della pagina precedente. Quella che c’è, ma che non ho mai scritto.

Trovereste – ve l’assicuro – vittorie e sconfitte, orgogli e delusioni, scoramenti senza fondo e inesauribili slanci alla rinascita. Scorgereste qualche nuovo compagno di viaggio (e il viaggio più importante, si sa, è quello dentro di sé) e anche qualcuno che ho lasciato andare. Leggereste storie minime che, inattese, mi hanno dischiuso scoperte sbalorditive.

Fidatevi: è tutto lì, giusto ad un passo dall’essere raccontato. Con appena un velo che lo separa dai vostri occhi.

“Un disco dei Platters”: Marcello Mastroianni vs. Quartetto Cetra

Condivido con gran piacere un delizioso frammento di una puntata di “Canzonissima” del 1958. Marcello Mastroianni, ospite della trasmissione, sfida il Quartetto Cetra al microfono del loro celebre “Disco dei Platters”.

A onor del vero, di questo sketch esiste già un video su Youtube, ma la qualità non è delle migliori. Con un po’ di fortuna, allora, sono riuscito a recuperare un DVD antologico – dedicato proprio al Quartetto – che ne contiene una riproduzione più nitida.

Un documento – a tutti gli effetti – di un’epoca d’oro, in cui il varietà televisivo era ancora garbo, eleganza, capacità di ammaliare lo spettatore con nient’altro che le proprie doti attoriali.

“Fai bei sogni”: memoria di un abbandono

La morte non è niente.
Sono solamente passato dall’altra parte:
è come fossi nascosto nella stanza accanto.
Io sono sempre io e tu sei sempre tu.

“La morte non è niente” di Henry Scott Holland, 1910 (estratto)

Seguo da molto tempo, con grande devozione, il cinema di Marco Bellocchio. Se dovessi descriverlo in poche parole, lo direi un cinema dell’umano, vista l’assoluta centralità della figura dell’attore, della sua impronta emotiva, del suo corpo. Sguardi, parole dette o non dette, tensioni interiori inespresse ma più che mai evidenti, e attorno ad esse un sapiente e cesellato uso del mezzo cinematografico.

Non di rado – ed è questa una delle impronte autoriali che più ammiro – i suoi film si concludono in un luogo o tempo altro rispetto a quello della narrazione: un altrove tavolta reale, altre volte eventuale, ma sempre assolutamente necessario.

Se per esempio “Buongiorno, notte”, lungometraggio del 2003 dedicato al sequestro di Aldo Moro, si chiude con l’immagine speculare – di pochi istanti, ma inevitabilmente felice – del prigioniero finalmente libero, qualcosa di analogo avviene alla fine del film “Fai bei sogni” del 2016.

La pellicola, liberamente tratta dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini del 2012, racconta del dolore di un uomo per la perdita della madre, subita quando era ancora bambino. Tutto il racconto è un’inespressa ricerca di lei, un doloroso e sofferto tentativo di recupero del suo ricordo e del suo mistero.

Gli ultimi, meravigliosi istanti del film tornano nel passato:

«Ti ho fatto uno scherzo» dice lei, questa donna che nella superba interpretazione di Barbara Ronchi appare animata da un fremito sibillino e indecifrabile; la paura, però, è stata vera. In questa scena, che non nasconde una citazione ad Alfred Hitchock (al lettore il compito di scovarla), il piccolo Massimo interpretato da Nicolò Cabras sperimenta suo malgrado il gioco come simulazione del reale.

La madre si è rivelata, ha accolto il figlio nel suo nascondiglio, ma forse è già troppo tardi. Vagando tra quelle stanze, più grandi che mai per l’improvvisa assenza di lei, il bambino ha toccato l’irrompere virtuale della morte nel quotidiano.

Nello sguardo sconfortato del bambino che chiude il film c’è, allora, la triste consapevolezza che nessun abbraccio potrà colmare la distanza che lo separa da quella madre vicina e al contempo altra da lui. Tanto meno prepararlo al momento inevitabile dell’addio.

Cattedrali

Non chiedermi
perché barcollo
nel deserto.

Non mancano
oasi
d’acqua fresca.

Né l’ombra
materna
di una palma.

Ma nel deserto
io ricerco
cattedrali.

Non l’armistizio
dei sensi
io spero

ma altezze
che si perdano

che feriscano
a sangue
il Vuoto
umilante.

(31/12/2023)

The Killing Moon

Fate
Up against your will
Through the thick and thin
He will wait until
You give yourself to him

Mi sono chiesto spesso quali tracce abbiano lasciato gli anni ’80 – nel loro portato culturale tanto segnato dalla globalizzazione – in chi come me li ha vissuti da bambino, quasi esclusivamente per riflesso attraverso la televisione e la radio.

Lo confesso: non amo affatto i blockbuster americani del periodo, che pure tanto ricorrono nelle nostalgie dei miei coetanei – una sorta di nostalgia ricostruita a posteriori, va detto, dato che per motivi anagrafici non poterono vederli al loro primo passaggio al cinema.

Per la musica il discorso è diverso. C’è un’indecifrabile, magica connessione che mi lega agli anni ’80 ed in special modo alla new vave. Ho amato alla follia i primi Depeche Mode, ed ancora oggi trovo in A Broken Frame del 1982 – un disco che molti direbbero sempliciotto – un che di magnetico e irresistibile. E se nel tempo ho visto artisti più sofisticati calcare il palco, non potrò mai dimenticare la straordinaria, giocosa energia dei Duran Duran al teatro antico di Taormina nel 2016.

E poi, fra tanti altri, c’è il post-punk di Echo and the Bunnymen. Per ora ascolto di continuo The Killing Moon nella versione estesa di 9 minuti e mi perdo in quell’intreccio perfetto, in quella romantica decadenza che magicamente riscopre dentro di sé una pulsante, traboccante fiducia nel futuro.

Le due facce – mi dico – di un decennio che ho appena accarezzato. E in questo momento, forse, anche il cielo stellato delle mie tensioni e speranze per l’anno a venire.

Nutrire le scintille…

Augusto Cavadi è un filosofo palermitano, da anni impegnato come volontario presso la Scuola di formazione etico-politica “G. Falcone”, da lui fondata nel 1992 per l’educazione intellettuale e morale di chi voglia impegnarsi contro il fenomeno mafioso.

Volontariato in crisi: diagnosi e terapia (Il Pozzo di Giacobbe, 2003) è un breve ed agevole libretto che nasce dalla constatazione diretta di quanto il sistema del volontariato (in Italia, ma non soltanto) tenda a lavorar male al proprio interno e manchi di sostanziale incisività trasformativa sulla società. Il tentativo è allora quello di scandagliarne le cause profonde e mettere in moto possibili “terapie”. Per quanto siano trascorsi vent’anni dalla sua pubblicazione, reputo che molte delle tesi che esprime mantengano ancora oggi inalterate la propria forza.

In estrema sintesi (ma consiglio, a chi fosse interessato, la lettura dell’intero testo), l’autore individua la necessità di rifondare le attività dei presidi di volontariato su solide basi politiche, culturali ed etiche. Mi hanno colpito in particolare le riflessioni maturate intorno a quest’ultimo nodo, che riporto quasi per intero:

Senza una dimensione politica e senza una dimensione culturale, dunque, il volontariato rischia di morire. Ma, per completare e concludere in qualche modo il dicorso, va aggiunto che senza una dimensione etica non nasce neppure. Chi decide di bussare alle porte di un’associazione di volontariato può avere mille motivazioni psicologiche, ma – più o meno germinalmente – in esse di nasconde un desiderio di solidarietà, di servizio e di comunione.

La questione cruciale è che, troppo spesso, questo desiderio abortisce per strada. La pigrizia, il pressappochismo, la superficialità sono tentazioni incombenti anche su chi, scegliendo il volontariato, è mosso a compassione per il volto sofferente dell’altro e decide di accarezzarne i tratti induriti dal dolore e dalla delusione. Senza contare lo sconforto derivante dalle delusioni e dalle ingratitudini: quando si intraprende una presenza nel mondo dell’indigenza, si tende a idealizzare i propri interlocutori e solo col tempo si apprende che “i poveri non ci sono per esaltare la nostra bontà, ma perché è grande l’ingiustizia nel mondo, cui i poveri a volte fanno fronte con un’umanità che resta inviolata, a volte con una furia che distrugge anche il bene che ricevono”¹.

La serietà e la coerenza etica si apprendono per contagio diretto: non c’è niente di più fecondo della comunanza di vita con qualche persona che, senza pose esibizionistiche né atteggiamenti leaderistici, testimonia nella quotidianità dell’impegno, il suo essere-per-gli-altri.

Se non si ha la fortuna di incontrare simili testimoni ‘profetici’, non c’è comunque ragione di scoraggiarsi. La costanza, la trasparenza, l’efficacia duratura del proprio agire si possono guadagnare gradualmente, giorno dopo giorno, con pazienza verso i propri errori e con la mente fissa verso gli obiettivi prescenti. L’essenziale è che questi obiettivi siano quanto più chiari e completi possibile. Non ha senso che il volontario si prefigga la perseveranza nel proprio impegno se ai suoi occhi si tratta solo di un appuntamento settimanale da rispettare, senza rimettere in discussione tutto il suo modo di essere-nel-mondo. Mi intendo riferire all’illusione, prima o poi capovolta in delusione, che si possa ‘fare’ il volontario in alcune ore o in alcuni giorni, senza rivedere il proprio modo di ‘essere’ abitualmente cittadino del mondo: dunque continuando ad avere con il proprio tempo, con i propri soldi, con i propri simili, con gli animali, con l’ambiente naturale… un atteggiamento di distruzione, o, peggio, di consumismo e di sfruttamento. La fedeltà alla propria identità, per quanto segnata da inevitabili ritardi e incoerenze, sarà possibile se il volontariato perderà le caratteristiche un po’ esotiche di scelta di vita eccezionale e diventerà il volto quotidiano del cittadino adulto.

Abbiamo visto che sono indispensabili momenti di aggiornamento culturale in cui confrontarsi criticamente con quanto gli specialisti vanno elaborando in politologia, storia, sociologia, economia, psicologia, scienze religiose e così via. Ma non meno essenziali sono dei momenti di silenzio e di confronto amichevole per scoprire, o riscoprire, se il tran-tran quotidiano le ha fatte smarrire, le radici etiche del proprio impegno socio-politico. Ogni persona umana ha infatti, più o meno consapevolmente, una visione del mondo (religiosa, atea, agnostica…): da ciascuna di queste ‘filosofie’ possono scaturire – e scaturiscono di fatto – delle conseguenze pratiche ed operative sia di tipo rinunciatario ed oggettivamente conservatrici, sia di tipo costruttivo ed oggettivamente progressiste. È importante, dunque, che ciascuno ripensi, a partire dalle proprie radici etiche di fondo, il suo atteggiamento nei confronti della società: nella speranza che, radicato a questi livelli di consapevolezza profonda, il proprio impegno sia meno soggetto alle variazioni degli umori e delle mode.

¹ Gaetano Farinelli, “Attraversare il deserto. Il cammino di una donna alla ricerca della propria autonomia”, Città Aperta, 2001

A queste – a mio avviso – validissime considerazioni mi permetto di aggiungerne una io: forse vale anche l’inverso. Talvolta può essere proprio l’attività di volontariato, espressa nell’aiuto concreto a chi ne ha bisogno, vissuta nel contatto diretto con il dolore altrui, a trasformare l’individuo. A far sedimentare con il tempo radici etiche profonde lì dove inizialmente vi era solo un’imprecisata vocazione, contribuendo alla crescita umana e morale dell’individuo.

Per questo mi sento di lanciare, idealmente, un messaggio a tutti coloro i quali rivestono posizioni di responsabilità negli enti di volontariato: cercate anzitutto di accogliere chi vi si avvicina, in particolare se giovane e inesperto; di ascoltare la sua domanda, per quanto ingenua e vaga questa possa essere; di elaborare, insieme a lui, un linguaggio comune che lo faccia sentire parte del vostro progetto e gli consenta di mantenere costante nel tempo il suo impegno.

Anche il più confuso dei giovani è comunque, in quel momento, qualcuno che sta valutando di far proprio un essere-con-l’altro che non sia puro scambio mercantile e consumistico. Sono scintille preziose: se non nutrite con sollecitudine, rischieranno – nel passaggio alla vita adulta – di spegnersi per sempre.

Occam

 Possiamo presumere la superiorità della dimostrazione che deriva da un minor numero di postulati o ipotesi [a parità di altre condizioni].

Aristotele, “Analitici secondi”

Il principio noto come “rasoio di Occam”, detto anche lex parsimoniae, venne formulato nel XIV secolo dal filosofo e frate francescano Guglielmo di Occam. È un indirizzo metodologico che, di fronte a un problema da risolvere, invita a preferire la soluzione più semplice, quella cioè che comporta meno passaggi intermedi e, in generale, minore complessità.

Nonostante non sia stato oggetto in nessun momento né dei miei studi di liceo (pur scientifico), né di quelli universitari di informatica, mi sono trovato diverse volte ad applicarlo, tanto nel lavoro di sviluppatore, quanto, più in generale, in vari aspetti della vita quotidiana. Questo prima ancora che cercassi o, come in questo caso, ne trovassi un enunciato formale.

Tanto si potrebbe dire al riguardo: qui mi limito a riportare alcune semplici considerazioni che spero possano essere stimolo di riflessione.

Se è intuitivo che ricercare la soluzione più “veloce” ad un problema, in generale, sia pura e semplice applicazione di economia cognitiva, meno banale, forse, è considerare che lo stesso principio può realizzarsi attraverso una valutazione non già semplicemente quantitativa, ma anche qualitativa, dei passaggi coinvolti. Ciascuno step della soluzione di un problema ha in sé, infatti, una complessità intrinseca, ma – aggiungo io – anche un certo margine di imprevedibilità di cui è impossibile non tener conto.

Mi capita spesso di farne una battuta, forse perché cerco di resistere alla tentazione di trasformarla in idea perentoria, ma un fondo di verità c’è: dato un problema, le sue probabilità di soluzione – in generale – diminuiscono al crescere del numero delle persone coinvolte. Il perché è scontato: più persone sono implicate, più difficile è individuare un terreno comune in termini di linguaggio, impegno individuale, definizione stessa del problema. Non di rado, lo confesso, il mio primo tentativo è quello di azzerare questo numero.

Ma è anche e soprattutto nel mio lavoro che trovo un valido alleato nella lex parsimoniae. Lo sviluppo del software, come ben sa chi è del settore, procede verso una sempre maggiore ingegnerizzazione del codice, ovvero verso il rispetto di rigidi protocolli e linee guida che facilitino l’accesso e il riuso da parte di più sviluppatori, anche in momenti diversi. Se dosata nella giusta misura, il codice che ne deriva risulta più ordinato e maneggevole; oltre un certo limite – il parere è personale – questo diventa farraginoso da comprendere e sovrabbondante rispetto alle sue finalità.

Personalmente cerco di adottare, in questo, un compromesso che non sacrifichi quello che è, ancora oggi, uno degli aspetti che più amo di questo lavoro: l’occasionale possibilità di “pensare fuori dalla scatola”, usando creatività e intuito per trovare soluzioni agili e veloci ai problemi. Sia pure deviando un po’ dal rigido rispetto degli schemi.

Sarà forse in questo – mi illudo? Chissà! – che le nascenti intelligenze artificiali faticheranno più ad eguagliare il risultato umano.

Come diamanti, da lontano…

(frammento dal film “La donna che canta” di Denis Villeneuve)

«E allora sai anche che [gli scienziati] usano modelli visibili e costruiscono di essi delle dimostrazioni; ma nel ragionamento non hanno per oggetto tali realtà, ma le realtà a cui queste assomigliano, sicché quando ragionano hanno di mira il quadrato in quanto tale, la diagonale in quanto tale, e non quel quadrato, quella diagonale o quella data figura che vanno disegnando.»

«E che cosa credi che risponderebbero, Glaucone, se qualcuno ponesse [ai matematici esperti] tale domanda: “O gente eccelsa, di quali numeri ragionate, numeri nei quali si trova l’uno proprio come voi volete che sia, ogni volta uguale a se stesso in tutto e per tutto, senza la pur minima differenza, e senza alcuna parte al suo interno?” […] Vedi, dunque, caro amico, come questa disciplina rischi davvero di essere essenziale per noi, perché si qualifica come quella che obbliga l’anima a servirsi della pura intelligenza per attingere alla verità in quanto tale?»

Platone, “La Repubblica”, librI VI – VII

Ho sempre amato la matematica, già ben prima di intraprendere studi informatici: solo da adulto, però, sono riuscito ad comprenderne il motivo profondo. Questa materia mi ha offerto, fin da bambino, un sapere che parla di cose – in qualche modo – eterne, senza tempo.

E se mi piaceva risolvere i piccoli problemi che mi si proponevano a scuola, certo com’ero di aver espresso deduzioni logiche inconfutabili, al contempo provo ancora oggi meraviglia al cospetto dei grandi enigmi irrisolti della matematica.

Ogni numero pari maggiore di 2 può essere scritto come somma di due numeri primi: questa è la congettura di Goldbach, semplice eppure straordinariamente elusiva: il suo mistero alimenta, da oltre due secoli, una sfida all’ingegno dei matematici di tutto il mondo, e a tutt’oggi non è stato dimostrato se sia vera o falsa.

La soluzione di una congettura matematica – è questo ciò che più mi affascina – potrebbe essere appena dietro l’angolo o, al contrario, celare una strada inaspettatamente tortuosa, capace di mettere a dura prova, ancora per secoli, l’intelligenza e la creatività dei più grandi esperti. Come quando Andrew Wiles, nel 1994, pubblicò un plico di centinaia di pagine di alta matematica: era la sua dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat, datato 1637.

Ogni enigma matematico irrisolto è solo una delle due cose: vero o falso, da sempre e per sempre, indipendentemente da che un’intelligenza, un giorno, riesca a trovare o meno la sua soluzione.

Come un diamante che risplende in lontananza, semplice e perfetto in sé. Forse più vicino di quanto si pensi, forse più lontano di quanto si possa percorrere in una vita intera. Luccicante di un mistero che la maggior parte di noi accarezzerà appena, senza mai riuscire ad afferrarlo.

Doom Patrol: “Time, flowing like a river…”

“Doom Patrol” è una serie televisiva del 2019, ideata da Jeremy Carver e ispirata all’omonimo fumetto DC Comics creato da Arnold Drake, Bob Haney e Bruno Premiani nel 1963. Pressoché sconosciuta in Italia, nonostante il passaggio su Amazon Prime, è un vero e proprio gioiello tra gli adattamenti da comic book: per l’alta qualità tecnica della produzione, ma soprattutto per la sofisticata commistione di generi che mai però sottrae ad una cupa drammaticità di fondo, a dire il vero tutt’altro che autocompiacente.

Tanto ci sarebbe da dire: qui mi limito ad un appunto. La premessa è che, come tutte le serie prodotte nel corso del 2020, ad un certo punto dovette sospendere la lavorazione per l’irrompere della pandemia Covid-19.

Ecco: il primo episodio prodotto dopo la ripresa dei lavori, a pandemia ancora in corso, si apre con una scena che è una perfetta allegoria di quel primo, incerto, “ritorno alla vita” che seguì il lockdown. Un ritorno che dovette fare i conti con il trauma, qualche volta anche con il lutto. Di certo con quel tempo che – ne fanno eco gli Alan Parsons Project – nel frattempo ha continuato a scorrere, proprio come un fiume.

Quasi certamente è un caso, ma chissà.