Mio nonno Domenico, per tutti Mimmo, ha vissuto una vita lunga e intensa. I ricordi più belli della mia infanzia sono inevitabilmente legati alle estati e alle festività che trascorrevo nelle sue case (di campagna e di città) ad Agrigento.

Ci sarebbe tanto da raccontare su di lui che era sornione e ironico di un’ironia che mai più ho incontrato nella mia vita. Stavolta, però, voglio ricordare i suoi racconti da soldato nella Seconda Guerra Mondiale, fra le truppe italiane di presidio in Albania. Sono ricordi che nella sua memoria si ricompongono senza traumi, non fosse altro che non fu mai nella condizione di sparare.

Nostalgia di casa, cameratismo, piccoli gesti di eroismo: questo era il sapore dei suoi aneddoti. E non mancava neppure una vena straniante e un po’ buffa, come quando a gran voce rievocava i dialoghi con la popolazione locale. Così profondamente diversa per lingua e tradizione, ma con cui era facile condividere l’incertezza per il futuro.

Ho cercato di “ritoccare” il meno possibile per mantenere intatto lo stile un po’ d’altri tempi che affascina almeno quanto la storia in sè…

«Non dire, non sapere»

Mi trovavo in Albania in alta montagna nell’estate del 1943. Mentre i soldati a me affidati per passare tempo giocavano a carte, e precisamente eseguivano il gioco “‘U scieccu”, io gironzolavo sulla montagna attorno alla postazione militare.

Incontrai una persona anziana, un albanese. Allora io per attaccar bottone incominciai a chiedergli: «Tu essere contento che gli italiani sono venuti nel tuo paese, non è vero?»

«Non dire… non sapere…» mi rispose lui, impassibile.

Al che continuai: «Ora saranno costruite strade, palazzi, tutti avere un lavoro…»

E lui ancora a ripetere: «Non dire… non sapere…»

«Insomma starete tutti bene, verrà il benessere per tutto il popolo albanese.»

«Non dire… non sapere…»

Non capii e me ne andai. Però tanti anni più tardi, dopo la fine della guerra, compresi il senso delle sue parole. L’albanese mi aveva dato una lezione di autentico patriottismo.

Invero, poco gli importava di ciò che io promettevo per il suo Paese. Per lui non aveva nessuna importanza la costruzione di palazzi, di strade ed altro… se questo significava la perdita dell’indipendenza nazionale!

Il capitano

Albania, 1943. Insieme a tanti altri soldati italiani ero stato fatto prigioniero in un accampamento tedesco. I militari nemici, armati, presidiavano i confini del territorio.

Durante la notte fra il 9 e il 10 settembre sentimmo una voce, che diceva: «Italiani! Venite con noi! Italiani!». Erano soldati italiani liberi che ci invitavano alla fuga dal campo.

Decidemmo di accogliere l’invito.

Il nostro capitano, che aveva una certa età e una certa stazza corporea, incominciò ad interpellare i soldati per sapere se c’era qualcuno disposto a portare il suo zaino.

Dopo tanti “no” un povero soldato accettò l’incarico, facendo presente che era un’operazione difficile in quanto avrebbe dovuto correre portando due zaini: il suo e quello del capitano.

Questo soldato si mise allora a capo dei fuggiaschi e iniziò a correre. Noi tutti lo seguimmo.

Eravamo appena usciti dal campo quando il capitano, boccheggiante, raggiunse il soldato e gli urlò: «Ah! Ti sei dato a gambe levate per rubarmi lo zaino, eh? Ladro, farabutto e mascalzone!»

Allla vista di ciò, indignato io subito intervenni: «Ladro, farabutto e mascalzone c’è lei! È questo il modo di trattare un soldato che le ha fatto pure la cortesia di trasportare il suo zaino? Si ricordi che i soldati sono sacri e inviolabili!»

Poi, rivolgendomi ai militari, dissi: «Ragazzi, lasciamolo solo come un cane il nostro capitano, non merita più la nostra considerazione! Da questo momento il vostro comandante sono io! Ma che dico il vostro comandante, io sono il vostro fratello! Ciò che è mio è vostro!»

Così lasciammo il nostro capitano, e incominciammo la salita della montagna.