Fabio Vento

Appunti e contrappunti

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Arabia

“Piazza Caracciolo” di Croce Taravella, particolare

Non le avevo mai parlato, salvo che per poche parole casuali, eppure il suo nome era come un richiamo a tutto il mio sangue irragionevole. La sua immagine mi accompagnava anche nei luoghi più ostili al romanticismo. Il sabato sera quando la zia andava al mercato dovevo seguirla per portarle una parte dei pacchetti.

Camminavamo per le strade lampeggianti, prendendoci spintoni da ubriachi e donne intente a contrattare, fra le imprecazioni dei manovali, le acute litanie dei fattorini di guardia vicino ai barili di guanciale, i canti nasali degli strimpellatori, che cantavano un venite-con-me su O’Donovan Rossa o una ballata sui guai della nostra terra natia.

Questi rumori convergevano per me in un’unica sensazione di vita: immaginavo di portare in salvo il mio calice attraverso una folla di nemici. Il suo nome mi balzava alle labbra a momenti in preghiere e lodi strane che io stesso non capivo. I miei occhi erano spesso pieni di lacrime (che non mi spiegavo) e a volte dal cuore una piena sembrava riversarmisi nel petto.

Pensavo poco al futuro. Non sapevo se le avrei mai parlato o no oppure, se le avessi parlato, come potevo dirle la mia confusa adorazione. Ma il mio corpo era come un’arpa e le parole e i gesti di lei come dita che scorressero sulle corde.

Da “aRABIA” di James Joyce, 1914

Quella piccola stanza

Nel lontano 2007, poco dopo aver preso in affitto la mia prima stanza, scrivevo…

Non ho dimenticato di quando mi parlavi della casa. Una casa per te, una casa tua, per vivere quell’età adulta di cui già ti vestivi, e che qualche volta nel tuo agitarti ti andava un po stretta. Una volta – lo ricordo, eravamo in giardino – mi proponesti anche di prenderla insieme: io e tu, poi eventuali altri. Ero onorato di tanta fiducia, ma vivere da solo – all’epoca – era poco più di una vaga aspirazione.

Il destino poi ci divise. E, paradossalmente, dei due fui io ad andare via, a lasciare la mia famiglia. Tante cose erano cambiate, e scelsi proprio la via che, senza volerlo, mi avevi suggerito: forse qualcosa avevi seminato.

Una piccola stanza. Che con pazienza e cura, più di quanta sapessi di averne, ho trasformato: a poco a poco, da semplice camera da letto è diventata un piccolo salotto. Così ho scoperto che i luoghi possono esprimere chi li abita. Fino a diventare porto accogliente nei momenti stanchi o di sconforto.

È una piccola magia di cui ti sono debitore, ma come per tutte le cose c’è un prezzo: non ci sei tu. Sei la prima persona che avrei accolto e contemporaneamente l’ultima che mai vi entrerà.

È triste, ma in un certo qual modo è giusto. Come lo è il fatto che nessuno degli sguardi di donna che incrocio sia, nè sarà mai, il tuo.

“Annarella” e i corpi narranti

Uno youtuber ha avuto l’idea di accostare al brano “Annarella” dei CCCP i quadri di Tamara de Lempika.

Ecco che quelle immagini statiche acquisiscono la dimensione del tempo, si fanno veri e propri corpi narranti. Denudandosi. Esprimendo, con la propria stessa presenza, tutto il piacere e l’inevitabile dolore di stare nel mondo.

L’unica prepotenza legittima

(immagine generata da Midjourney)

Che m’importa se sei incominciato per caso o per sbaglio, anche il mondo in cui ci troviamo non incominciò per caso e forse per sbaglio?

Alcuni sostengono che in principio non c’era nulla fuorché una gran calma, un gran silenzio immobile, poi si verificò una scintilla, uno strappo, e ciò che non era fu. Allo strappo seguirono presto altri strappi: sempre più imprevisti, sempre più insensati, più ignari delle conseguenze. E tra le conseguenze sbocciò una cellula, anche lei per caso, forse per sbaglio, che subito si moltiplicò a milioni, a miliardi, finchè nacquero gli alberi e i pesci e gli uomini.

Tu credi che qualcuno si ponesse un dilemma prima dello scoppio o prima della ceullula? Credi che si domandasse se gli sarebbe piaciuto o no? Credi che si preoccupasse della sua fame, del suo freddo, della sua infelicità? Io lo escludo. Anche se qualcuno fosse esistito, ad esempio un Dio paragonabile all’inizio dell’inizio, al di là del tempo e al di là dello spazio, io temo che non si sarebbe curato del bene e del male.

Tutto avvenne perché poteva avvenire, quindi doveva avvenire, secondo una prepotenza che era l’unica prepotenza legittima. E lo stesso discorso vale per te.

Da “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci, 1975

Balla incontra Vivaldi: quattro stagioni in rosso

(dopo il play, fare click su    per visualizzare a schermo intero)

Tra il 1939 e il 1940 il pittore Giacomo Balla, già esponente di spicco del Futurismo, ritrae la giovanissima Giuliana Canuzzi in quattro meravigliosi dipinti ispirati alle stagioni dell’anno, nei quali predomina il colore rosso.

Ho pensato di accostare ad essi alcuni movimenti delle “Quattro stagioni” di Antonio Vivaldi.

La fiammata dei rossi nella pittura di Balla viene dopo il male in seguito ad un incidente per cui l’artista fu in pericolo di vita. Quando riprende le forze nel fisico il suo spirito, sensibilissimo nel captare la vita che lo circonda, si trova attorno la giovinezza: le fanciulle, noi, le amiche, le allieve: Mignolina, Giuliana, Elita, Gemma, Gabriella, Silvia, Marisa, Loletta; ha desiderio di riprendere i pennelli: è la vita che ritorna, la luce, la sua eterna ricerca, i colori nella luce, ambientati nella luce: i colori incorniciano la giovinezza; fiori e giovinette tra i colori, giallo su giallo, viola su viola, ma poi è il rosso che vince, questo vitale colore lo entusiasma.

Elica Balla, figlia di Giacomo

L’esecuzione è a cura della Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Muti, con primo violinista Giulio Franzetti.

“Identitats”: storia di una marionetta

Proprio ieri sera, in occasione dell’annuale Festival di Morgana organizzato dal Museo delle Marionette “Antonio Pasqualino” di Palermo, ho assistito allo spettacolo “Identitats” della compagnia spagnola Rocamora Teatre.

La marionetta metafisica. Una marionetta nuda, senza volto, nasce e muore sulla scena. Nel percorso della sua effimera esistenza, adotterà diverse maschere “larvali”, ciascuna di esse segnerà il modo di essere e di fare, assumendo così le identità che sono prefigurate da queste.

Uno spettacolo commovente. Il marionettista Carles Cañellas è riuscito, manovrando ben 27 fili, a infondere vita alla sua creatura: guidandola attraverso le sue tante “maschere”, una per ogni fase della sua esistenza.

Finché, alla fine della sua “vita”, la marionetta rientrerà in quello stesso sacco – metafora del ventre materno – che l’ha generata. Senza più maschere, restituita alla nuda umanità a cui tutti apparteniamo.

Di seguito alcuni momenti dello spettacolo.

Nocciola

Non mi sono accorto che era autunno finché, qualche giorno fa, non abbiamo spostato le lancette dell’orologio un’ora indietro. Ho guardato dalla mia finestra e il buio era già apparso, inesorabile, a metà pomeriggio.

I lampioni hanno iniziato a illuminarsi: la loro luce, in qualche modo accogliente sul nero anonimo, è il colore distintivo di quel freddo che attendiamo con diffidenza e insieme desiderio, e che ancora, ancora non arriva.

E ho ripensato a Nocciola. A quegli occhi castani che non conoscevano il male, che erano autunno e malinconia. Nudi di fuoco.

Lì nel freddo ci scegliemmo, ci donammo fiducia. Facemmo alcuni passi insieme, mano nella mano. Poi lei si allontanò ed io la lasciai fare, senza porre domande.

Non facemmo in tempo a vedere la primavera e questo mi fa ancora male. Forse il nuovo sole avrebbe ridato luce anche a lei, le avrebbe regalato un po’ di leggerezza.

Mi resta l’infinita curiosità di vedere come sarebbe stata.

Lacrime di un sassofono

Non tutti sanno che, tra il 2011 e il 2012, David Lynch inaugurò sul proprio sito il Twin Peaks Archive, collezione di brani composti da Angelo Badalamenti per l’omonima serie televisiva e fino a quel momento mai pubblicati. Oggi l’intero archivio, composto da 211 pezzi, sopravvive su una playlist di YouTube.

La maggior parte delle tracce sono versioni alternative della colonna sonora ufficiale: fra tutte mi ha stregato la versione per sassofono del tema di apertura del film Twin Peaks: Fire Walk With Me.

Intendiamoci: la musica originale è già splendida. Con quella sua impronta desolata e indissolubilmente noir, è perfetta per introdurre un film di cui – trattandosi di un prequel della serie – conosciamo già il triste, ineluttabile finale.

Quella voce calda del sax, però, che un po’ gioca anche a improvvisare, la rende ancora più intima e personale. Struggente e graffiante, come la confessione di un amico che non riesce a trattenere le lacrime.

L’ho fatta incidere su vinile: è quello il suo posto, tra le cose preziose che meritano il proprio spazio e tempo.

La Regione Non Tradotta Tre Primo

L’idea dietro il vaccino è di insegnare al nostro sistema immunitario come combattere con un patogeno, senza però ammalarci veramente. Storicamente questo è stato fatto iniettando un virus indebolito o neutralizzato. Questa era una tecnica decisamente analogica, che richiedeva un sacco di fortuna e molto tempo.

Un vaccino a mRNA ottiene lo stesso risultato (“informare il nostro sistema immunitario”) ma con una precisione laser. E intendo questo in entrambi i sensi: molto preciso ma anche molto potente.

Ed ecco qui come funziona. L’iniezione contiene materiale genetico volatile, che descrive la famosa proteina “Spike” del SARS-CoV-2. Attraverso ingegnosi metodi chimici il vaccino riesce a introdurre questo materiale genetico all’interno di alcune delle nostre cellule.

Queste perciò iniziano a produrre proteine Spike SARS-CoV-2 in quantità grandi abbastanza da fare scattare in azione il nostro sistema immunitario. Trovandosi davanti a queste proteine Spike e a segni che le cellule sono state invase, il sistema immunitario sviluppa una risposta massiccia contro le proteine Spike e il loro processo produttivo.

C’è un documento che, nel flusso di notizie che dall’inizio della pandemia Covid-19 ha attraversato i media, a suo tempo passò quasi in sordina. Pubblicato a fine dicembre 2020 dallo sviluppatore software Bert Hubert, è un vero e proprio reverse engineering del funzionamento dell’allora neonato vaccino BioNTech/Pfizer.

Reverse engineering, sì, perché la formulazione del vaccino ha avuto parecchi aspetti in comune con la compilazione del codice sorgente di un programma per computer.

Il testo, mi rendo conto, è decisamente tecnico e non alla portata di tutti. Una cosa, però, spero si evinca a più riprese: la creazione del primo vaccino efficace contro il Covid-19 è stato un processo di grande levatura tecnico-scientifica, che – non meno delle competenze prettamente specialistiche – ha visto in gioco fantasia, intelligenza e intuizione. Un approccio hacker, si potrebbe dire, se l’hacking è l’arte di combinare con creatività dati e informazioni eterogenee perché siano utili ad un obiettivo.

Questo è uno dei punti estremamente ingegnosi di questo vaccino. Il nostro corpo utilizza un potente antivirus (l’originale!). Per questo motivo, le cellule sono estremamente poco amichevoli verso del RNA estraneo, e si impegnano molto per distruggerlo prima che riesca a fare qualsiasi cosa.

Questo è un po’ un problema, per il nostro vaccino, che deve infiltrarsi oltrepassando il sistema immunitario. Ma dopo molti anni di esperimenti si è scoperto che se la U nell’RNA viene sostituita con una molecola diversa, il nostro sistema immunitario perde interesse. Completamente.

E così nel vaccino BioNTech/Pfizer, ogni molecola di uracile U è stata sostituita con una molecola di 1-metil-3′-pseudouridina, indicata con Ψ. E la parte ingegnosa è che anche se questa Ψ sostituita calma il nostro sistema immunitario, le parti chiave della cellula la continuano a considerare come una normale U.

Anche in sicurezza informatica conosciamo bene questo trucco: a volte è possibile inviare una versione leggermente alterata di un messaggio, che confonde i firewall e le soluzioni di sicurezza, ma che è lo stesso accettata come valida dai server che vi stanno dietro, e che in questo modo possono venire hackerati.

Per questo, al netto delle critiche più o meno condivisibili sulle politiche sanitarie messe in atto dai governi, la lotta della scienza contro il Coronavirus – non ancora conclusa, ma costellata da indiscutibili successi – è stata per me anzitutto un’esperienza di alto profilo umanistico.

Di cui andare fieri come collettività e che, nella valanga di polemiche talvolta strumentali, non ha mai purtroppo ricevuto il dovuto apprezzamento.

Inseguendo Depero

i futuristi furono i primi pittori, poeti ed architetti che esaltarono con la loro arte l’opera moderna –
dipinsero automobili in velocità –
dipinsero lampade scoppianti di luce –
dipinsero locomotive sbuffanti e ciclisti veloci –
i futuristi stilizzarono le loro composizioni con uno stile violentemente colorato; con una plastica riassuntiva e geometrica moltiplicarono e scomposero i ritmi degli oggetti e dei paesaggi per accrescere la dinamicità e per rendere efficace la loro idea veloce, il loro stato d’animo e la loro concezione –
a contatto continuo con il paesaggio d’acciaio, di luce e di cemento armato dei nostri tempi, i futuristi crearono una nuova tecnica, una nuova prospettiva multipla, una plastica aerea e volante

Fortunato Depero, “Il Futurismo e l’arte pubblicitaria”, 1931 (RID.)

Ho sempre amato il Futurismo italiano, per la straordinaria capacità che ebbe, all’inizio del Novecento, di rompere i ponti con il peso della tradizione accademica. Il culto per la velocità e per il progresso, offerti tra l’altro dalla nascente tecnologia, era pulsione infinita di godere l’attimo, l’intensità del presente, per andare subito oltre.

Un rapporto particolare mi lega a Fortunato Depero, il cui tratto è di certo uno dei più immediati e “leggibili”: la comunicazione visiva e pubblicitaria – a cui peraltro egli contribuì – ancora oggi deve molto alle sue intuizioni.

Quando nel 2015 il Museo Regionale di Messina inaugurò la mostra “L’invenzione futurista: Case d’arte di Depero” (a memoria, tra le prime mostre in Sicilia dedicate ad un artista futurista di rilievo nazionale), mi precipitai. L’esposizione raccoglieva un gran numero di opere provenienti dalla Casa d’Arte Futurista Depero di Rovereto: ne conservo ancora oggi, gelosamente, il catalogo, stampato in pochi esemplari.

Quando poi all’inizio del 2019 pianificai una breve gita nei dintorni di Venezia, non mi lasciai scappare l’occasione di far tappa proprio a Rovereto, per visitare la collezione della Casa d’Arte nella sua interezza. Prima che a Roma, l’anno scorso, aprisse Casa Balla, si trattava dell’unico museo futurista in Italia.

Adesso Depero è nella mia città, a Palermo, in una esposizione al Museo d’Arte Moderna e Contemporanea Riso che si estenderà fino a metà gennaio.

La mostra, purtroppo, espone soltanto una piccola parte del patrimonio di Casa Depero; ho ritrovato però due dipinti che amo particolarmente, legati al soggiorno dell’artista a New York dal 1928 al 1930:

Grattacieli e tunnel, 1930
The new Babel, 1930

Questi due quadri sono frutto della suggestione che Broadway e i luna park di Coney Island esercitarono su di lui:

Lo spettacolo dei grattacieli, delle luci di Broadway e della subway rivelava all’artista futurista quasi l’avverarsi del mondo nuovo teorizzato in Europa, senza quella componente da incubo futuribile che circolava nella cinematografia espressionista (“Metropolis” di Fritz Lang è del 1927), e anzi con una percezione incantata come di fronte a un grande luna park: le due bellissime tempere del 1930 compongono così un meccanico paesaggio urbano di cingoli, ruote, tubi, morsetti e grattacieli, un gigantesco giocattolo affastellato a dispetto di ogni logica funzionale.

Sergio Troisi

E non privo – come giustamente sottolinea Nicoletta Boschiero, curatrice della mostra palermitana – di una sorta di fascino decadente. Come se la natura effimera delle cose fatte dall’uomo non fosse per l’artista motivo di sconforto: semmai anzi desiderio giocoso di lasciarsene abbagliare, di goderne il più possibile, qui ed ora.