Fabio Vento

Appunti e contrappunti

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“I cento passi”: the joke and the punchline

Non c’è barzelletta senza battuta finale. Quella sferzata – in inglese si dice, non a caso, punchline – che in un attimo tinge di buffo un racconto altrimenti serio. L’umorista se la gioca tutta lì: un errore nei tempi o nei modi, e anche la più divertente delle storielle può perdersi nel più imbarazzante dei silenzi.

Silenzi, già: ogni volta che rivedo “I cento passi” di Marco Tullio Giordana, mi stringe il cuore quell’attimo di smarrito silenzio che chiude l’irriverente monologo radiofonico di Peppino Impastato. Che, per l’intensità con cui irrompe, è davvero un momento di grande cinema.

Ci sono tante cose, in quell’attimo di incertezza. Verrebbe da dire, naturalmente, che ci sia paura. Paura che questa sfida alla mafia, sul proprio territorio e nel cuore del suo stesso sistema simbolico, possa chiamare vendetta.

Forse c’è anche triste solitudine, nella consapevolezza che, pur se armato della migliore verve, è quasi da solo contro un Male molto più grande di lui.

Ma non credo sia semplicemente questo. La battuta finale di Peppino, che si perde nel silenzio della sala di registrazione, riguarda il perdono. Forse, dico forse, è a suo padre che lui pensa in quel momento. All’uomo che lo ha cresciuto e che, adesso, si sente tenuto a disprezzare perché mafioso. All’uomo che, nonostante tutto, vorrebbe trovare il coraggio di perdonare.

Quel silenzio, chissà, cela forse il baleno di una consapevolezza: che qualsiasi uomo, anche il più buono, può cadere. E che in fondo, accanto alla lotta agguerrita, al Male si può opporre qualche volta anche la compassione.

Buongiorno, mezzanotte

Buongiorno, mezzanotte.
Torno a casa.
Il giorno si è stancato di me:
come potevo io – di lui?

Emily Dickinson, “Buongiorno, Mezzanotte” (frammento)

È quasi un anno che non passi da qui. Eppure lo so, non sei mai stato lontano. Ogni tanto ti affacciavi, e allora mi scrutavi con discrezione, senza farti notare.

Leggevi le parole che avevi depositato nel tempo. E ti accorgevi di come ciascuna fosse stata un piccolo, necessario passo: raccontandoti al mondo ti eri raccontato, spiegato a te stesso.

Sentivi di non aver più nulla da dire. Che ogni parola in più sarebbe stata una concessione di troppo all’Altro – a quell’Altro con cui, ormai, sentivi di esserti confrontato più che a sufficienza.

Eppure sei proprio tu che la notte sogni. E navighi: tra ipotesi, strade mai battute, scelte impossibili. Per poi svegliarti, la mattina dopo, spaventato e insieme affascinato.

Allora ti dico: ritorna. Non per concedere, ma per donarti ancora una volta. Perché c’è ancora tanto da capire, da scoprire. Se vorrai, sarò la mezzanotte del tuo giorno.

E allora buongiorno. Buongiorno, mezzanotte.

“La vita è bella” e quell’indovinello senza risposta

Del film “La vita è bella” di Roberto Benigni mi ha sempre incuriosito l’indovinello che il dottor Lessing, ufficiale nazista, pone a Guido all’interno del lager di cui è prigioniero. Indovinello che – unico tra i quattro che attraversano la pellicola – non avrà risposta:

Grasso, grasso
Brutto, brutto
Tutto giallo in verità
Se mi chiedi dove sono
Ti rispondo “Qua qua qua”
Camminando faccio “pò pò”
Chi son io?
Dimmelo un po’!

A prima vista potrebbe sembrare che il contenuto dell’indovinello sia poco importante. Che serva soltanto a enfatizzare la tragedia del protagonista nel momento in cui vede svanire l’unica possibilità di salvezza per sé e la sua famiglia. Perfino con un tocco di nera ironia, visto che è l’ufficiale a “chiedere aiuto” a lui.

In realtà più di qualcuno sospetta che l’indovinello sia interessante di per se stesso e che meriti un esame attento. Stefano Bartezzaghi, autore del testo dell’enigma, è lapidario:

L’indovinello non ha risposta, né può averla, perché è il segnale narrativo della follia come risposta individuale alla tragedia del lager.

Indipendentemente dalle intenzioni dell’autore, però, nulla vieta di sperimentare altre interpretazioni. Lo studioso di folclore Steve Siporin dedica un articolo sulla rivista scientifica Journal of Modern Italian Studies ai quattro indovinelli contenuti nel film, sottolineando come questi siano “espressioni condensate dei suoi temi di fondo”.

Tra le varie interpretazioni dell’indovinello di Lessing esaminate da Siporin ce n’è una che mi sembra particolarmente pregnante:

E se l’indovinello fosse quello che Alessandro Falassi chiama un “anti-enigma”, ovvero un enigma per cui è impossibile fornire risposte “oggettivamente” soddisfacenti? In altre parole, la risposta potrebbe davvero essere “l’anatroccolo” – ma chi pone il quesito sta usando il suo potere per escludere anche la risposta corretta. In questo caso, l’indovinello sarebbe una metafora appropriata della perversione dell’Olocausto. Una delle regole fondamentali degli indovinelli (che ci sia almeno una soluzione e che la risposta corretta venga accolta come tale) è stata infranta. Metaforicamente, sono le regole stesse della civiltà ad essere scomparse – non esiste una risposta accettabile, anche nel caso in cui una risposta ci sia. È forse la definitiva umiliazione dello spirito umano. La morte e la sofferenza sono arbitrarie – e a nessuno è permesso di dare ad esse un senso, anche se fosse in grado di farlo. L’enigma, come l’Olocausto, è intenzionalmente non intellegibile. Il problema è progettato in modo da precludere una soluzione se possibile e respingerla se viene offerta.

Una lettura a mio avviso validissima, se si pensa che l’intero film – dalle trovate divertenti di Guido per sedurre Dora, fino al “grande gioco” che presenterà al figlio per proteggerlo dall’orrore della deportazione – è il racconto della forza creativa dell’amore. Di quella volontà, evocata fin dalle prime scene, che non tarderà a farsi azione trasformativa per confezionare, a vantaggio delle persone amate, un nuovo senso alle cose.

Sarà proprio nell’Olocausto, in quel male tanto grande da sfuggire a qualsiasi comprensione, da non poter essere neppure capito o spiegato – che altra reazione può mai aversi di fronte alla montagna di cadaveri che lo stesso Guido vedrà di lì a poco? – che il protagonista incontrerà, e infine vincerà, la sua sfida più grande.

Horizon

(immagine © meshweaver.com, click per ingrandire)

Qualche tempo fa ho acquistato un modellino in scala della U.S.S. Horizon NCC-176 a cura di Eaglemoss. In servizio nel ventiduesimo secolo di Star Trek (prcedente quindi di circa un secolo gli eventi della Serie Classica), di fatto non è mai apparsa su schermo. Dopo una breve menzione nella stessa Serie Classica, se ne intravederà un modello ornamentale nell’ufficio del capitano Sisko in Deep Space Nine.

Il suo design è una creazione “a posteriori” nella continuity di Star Trek, risale infatti solo al 1993 la realizzazione del primo modello ad opera di Greg Jein. Le forme semplici ed essenziali, quasi stilizzate, ne danno un aspetto ben più “militaresco” di quell’Enterprise che, negli anni e tra le generazioni, andrà sempre più affinandosi e aggraziandosi. Ma, ai miei occhi, questo non è un male: mi fa pensare a un incedere perfino baldanzoso, a un’epoca di intraprendente esplorazione dello spazio, dove ogni giorno era occasione per conoscere “nuove forme di vita e nuove civiltà” e dove il pericolo poteva essere davvero dietro ogni angolo.

E poi c’è quello scafo frontale a forma di sfera. Mi piace pensare che il progettista si sia volutamente ispirato alle forme confortevoli, quasi materne, della Space Age anni ’70.

Ecco: dentro quella piccola grande sfera, quando mi avvicino e provo a immaginare, vedo la vita. Immersa in una tecnologia sicura, al servizio dell’uomo. Che sa essere efficiente, sì, ma più di tutto accogliente.

City of Stars

Anni fa prendevo lezioni di canto e tecnica vocale. Ebbene sì: una delle non poche esperienze che intrapresi nella convinzione di avere una certa attitudine. Mi pareva di scorgere – mettiamola così – una luce lontana che un giorno avrebbe disvelato qualcosa di me che ancora non conoscevo.

Avevo scelto la musica swing, e messo su un repertorio che dagli anni ’40 del Quartetto Cetra portava fino agli ’80 di Sergio Caputo, attraversando occasionalmente l’oceano per omaggiare lui, il grande Frank Sinatra. In quel particolare genere musicale – pur nella sua grande varietà – scorgevo una cifra distintiva, un quid di eleganza e sorniona ironia che, in quel momento della mia vita, mi pareva un vestito affascinante da indossare.

Cantarlo, in effetti, mi divertiva, ma – in realtà – era come se mancasse sempre qualcosa. Come se, per quanto mi sforzassi, non riuscissi mai a trovare una connessione profonda.

Finché la mia insegnante non propose “City of Stars”, brano principe del film “La La Land” di Damien Chazelle:

City of stars… are you shining just for me?

Per qualche motivo queste prime battute, che con Ryan Gosling pronunciavo con voce soffusa, mi diedero un brivido. Sentii di toccare una corda intima.

Troppo poco e troppo tardi, si potrebbe dire. Perché di lì a poco gettai la spugna e considerai chiusa l’esperienza. Di questo percorso, durato circa tre anni, oggi ricordo pochissimo, a riprova di quanto poco mi sia realmente appartenuto.

Eppure ancora oggi, ogni tanto, ripenso a “City of Stars”. E mi chiedo come sarebbe stato se all’epoca, durante una lezione qualsiasi, mi fossi fatto prendere da in un impeto di follia. Cestinando tutto il resto. E ripartendo proprio da lì: da quella piccola, fragile, sconvolgente canzone.

“La scuola cattolica” e l’unica lezione necessaria

Nel film “La scuola cattolica” di Stefano Mordini, ispirato ai fatti tragici della strage del Circeo, c’è un momento di grande felicità espressiva. Due ragazze fanno autostop verso casa, e Carlo, uno dei protagonisti, offre loro un passaggio. Le due – limpide, intraprendenti, si intuisce anche desiderose più che mai di mettersi in gioco nella partita della vita – sono ignare delle tragiche conseguenze che questo incontro causerà solo pochi giorni dopo.

Sulle note de “La collina dei ciliegi” di Battisti le due cantano a squarciagola, ridono, si scambiano occhiate d’intesa, invitano Carlo a unirsi al coro. La loro spensieratezza è travolgente, palpabile: forse anche legata all’entusiasmo di aver conosciuto un nuovo ragazzo.

Ecco che però a un certo punto, proprio mentre la canzone di Battisti declina verso una coda nostalgica, Donatella – splendidamente interpretata da Benedetta Porcaroli – si immerge nei propri pensieri, portandoci per un attimo lontano dal “qui e ora”.

Chissà dove si pensa, dove proietta sè stessa in quello sguardo trasognante che scommetto resterà a lungo nei ricordi di chi ama il cinema. Sembra, forse, custodire la consapevolezza che l’entusiasmo di un momento ha il suo giusto contrappeso nella necessità dell’attesa. Della comprensione di sè e dell’altro, giorno per giorno.

Quanto seguirà, purtroppo, è triste cronaca nera.

Ecco, è forse questa la lezione che la scuola cattolica, la stessa che dà titolo al film, non è stata in grado di dare. Che il Male – da cui pure mette in guardia – non è nel desiderio in sè, quanto piuttosto nell’indisponibilità dell’uomo a trasformare il proprio desiderio. A far sì che evolva, un passo alla volta, nella conoscenza dell’altro e nel rispetto della sua libertà.

“Ehrengard”: il vertiginoso mistero dell’Altro

(immagine dal film di Emidio Greco ispirato al romanzo)

Riprendendo gesti e scenari del suo primo libro, le Sette storie gotiche, ma immettendoli in un gioco se possibile ancora più affilato, in una occulta matematica delle immagini, Karen Blixen ci racconta qui la storia della splendida vergine guerriera Ehrengard e del demoniaco pittore Cazotte, che vuole sedurla – ma senza neppure sfiorarla, facendola solo arrossire di complicità (così vuole la sua suprema perversione di artista) –, mentre intorno a loro e attraverso di loro si intreccia una contorta trama dinastica, in un felice, piccolo regno da operetta.

adelphi, presentazione del romanzo

Il romanzo breve “Ehrengard” di Karen Blixen è stato uno degli incontri più felici della mia giovinezza. E non tanto per ciò che racconta – e qualcosa, nondimeno, racconta -, ma per quella vertiginosa complessità che celano i suoi personaggi, appena dietro quella che è la prima sensazione del lettore.

Con queste parole il pittore Wolfgang Cazotte risponde alla duchessa di Babenhausen, quando questa gli confida la sua preoccupazione per l’apparente indifferenza del figlio al fascino femminile:

«Consentite – le disse – che io cerchi di esprimere quel che sento. Ci sono nature di così rara elevatezza che in loro nessuna qualità e nessuna condizione saranno mai negative.

Compenetrata da un animo simile, ogni singola tendenza partecipa della sua purezza e della sua integrità. La plastica unità di uno spirito elevato non conosce alcun conflitto, per lui natura e ideale sono una cosa sola. Anche l’idea e l’azione sono una cosa sola, dal momento che l’idea è un’azione e l’azione un’idea.

Quando il Principe Lotario farà la sua scelta, la farà da un istante all’altro e con tutto sé stesso.»

E ancora, così lo stesso Cazotte descrive i propri progetti di seduzione nei confronti di Ehrengard, giovane e impassibile guerriera che dà titolo al romanzo:

Quale sarà adesso, per il vero artista, la fine fleur dell’essere di questa fanciulla? In quale atto, al momento prescelto, una natura come la sua si concederà più totalmente? Me la sono raffigurata in ogni possibile situazione e atteggiamento, che è già di per sé un piacevole diversivo. E sono giunto a una conclusione. Nel rossore.

Così, a tempo debito, dovrò far scorrere il sangue della mia giovane Amazzone, non in rivoli sul terreno, ma in un fiotto che erompa dalle più profonde, più segrete e sacre sorgenti del suo essere sino a coprirla tutta come un trasparente velo cremisi e a darle fuoco in una sola, splendida vampata di fiamma.

Se sono riuscito a metterla in un ambiente e in una situazione che ben potrebbero imporporare il volto di un’altra vergine, non desidero davvero che lei arrossisca per riluttanza, o per timore di affrontare i pericoli che la circondano. No, il suo sangue deve ardere per orgoglio e amour-propre, in una resa incondizionata a quei pericoli, nell’estatico abbandono di tutto il suo essere a quelle forze che, fino a questo istante, con tutto il suo essere ella ha respinte e negate.

Altere, avvolte in un’indifferenza quasi regale: così sono le figure disegnate dalla Blixen. Eppure, dietro tale ritrosia si intravede sempre una vertiginosa profondità che potrebbe in qualsiasi momento rivelarsi.

Cosa servirà allora – pare chiedersi l’Autrice – per trascendere in un sol colpo la distanza che ci separa dall’Altro? Forse l’attesa paziente, in una matematica di segni, della giusta circostanza?

Per soddisfare la curiosità della Principessa, Ehrengard fu costretta a pensare a Kurt von Blittersdorff molto più di quanto avesse fatto sino a quel momento. Kurt, disse alla Principessa, si era battuto molte volte a duello.

“Ma voi non eravate atterrita, fuori di senno per la paura e l’angoscia?” domandò Ludmilla.
“Kurt è un ottimo spadaccino a rispose Ehrengard. “Ha insegnato a tirare di scherma anche a me”.

“L’avete mai baciato, Ehrengard?” volle sapere Ludmilla dopo uno dei suoi lunghi silenzi.
“Si, l’ho baciato molte volte quando eravamo bambini” disse Ehrengard. “E mio cugino. Quando era a scuola veniva a passare le vacanze a Schreckenstein”.

Dopo un altro silenzio Ludmilla le domandò: “Avete mai condiviso un segreto, voi due?”.
“Sì” rispose di nuovo Ehrengard. “Quando i ragazzi facevano qualche scappatella, e io li aiutavo perché papà non venisse a saperlo”.

La Principessa rimase zitta, poi tutt’a un tratto, a bassa voce, proruppe: “Fate in modo di avere un segreto con lui. Qualcosa che, in tutto il mondo, sapete soltanto voi e lui. Allora sentirete che lui è voi e voi siete lui”.

O forse, semplicemente, il vincolo intimo e prezioso di un segreto in comune?

Una cosa è certa. Se fosse musica, sarebbe rarefatta ed enigmatica come le Gnossiennes che ci ha regalato Erik Satie.

Agrigento

Per quelle strade
là in alto
con l’occhio che è già al mare
come rivoli
scomposti
divaghiamo.

Solo perché
sappiamo
che poi torneremo
sicura
alla nostra casa.

Ecco:
la porta grande è chiusa.
Ogni cosa è lontana.
Dal vetro
rivedo
il giallo oro.

Siamo a casa.

(13/12/2014)

Piccola storia di un rondone

Questa è una storia lontana, e anche piccola, tanto che iniziò e finì nell’arco di una giornata. Ma è ancora dolce nel mio cuore.

Tanti anni fa, mattina presto, mi recavo al lavoro in bicicletta, proprio com’ero solito fare all’epoca. A un certo punto, per puro caso, scorsi una figura che si agitava nel mezzo della strada: era un uccellino dal colorito grigio, così piccolo che poteva stare in una mano. Non era ferito, ma in qualche modo sembrava faticare a rimettersi in volo.

D’istinto lo presi con me. «Meno male – pensai – che ha incontato me. Le auto non avrebbero avuto pietà di te! Di più: non ti avrebbero neppure notato». Lo portai in ufficio, e lì mi affrettai a ricavare uno spazio sicuro nel piccolo terrazzo che si affacciava sulla mia stanza. Una breve ricerca online mi diede il nome: rondone.

Cercai di capire perché non riusciva a volare: stava forse male? Niente affatto. Scoprii in quel momento che non tutti gli uccelli prendono il volo da terra: alcuni, come il rondone, si lanciano solo dall’alto, cavalcando le correnti. Un tratto del genere, che si ascriverebbe con facilità ad una personalità temeraria, è per loro del tutto naturale.

E’ solo questione di aspettare il momento giusto, pensai: ma qual è il momento giusto? «Certamente – mi risposi – non è un calcolo mentale. È semplicemente qualcosa che, a un certo punto, sentono dentro di loro». Provai allora a immaginare la scena e mi venne un brivido nel pensare che un essere così piccolo avrebbe potuto, un giorno, regalare una sorpresa tanto vertiginosa. In un certo senso, allora, ebbi fiducia in lui perché lui potesse un giorno averne in sé.

Uscito dal lavoro, mi procurai del cibo – un omogeneizzato – e gli strumenti per dargli da mangiare e da bere. Con una pinzetta portavo i bocconcini al suo piccolo becco: con avidità cercava di masticarli. Era irrequieto, a fatica riuscivo a trattenerlo nella mano, ma capivo che non aveva paura di me.

Poche ore dopo lo affidai ad un’associazione animalista: era la cosa più saggia. Mi dissero che sarebbe stato affidato a un centro di recupero della fauna selvatica, e da allora non ne ho più avuto notizie.

Mi piace pensare che sia cresciuto, che quelle ali appena accennate siano ora forti e robuste. E che un giorno, proprio come la gabbianella del famoso racconto di Sepúlveda, abbia sentito di poterlo fare. Di poter spiccare il volo, magari dal ramo alto di un albero: ancora più alto di quello da cui un giorno cadde. Fiducioso che le sue ali, e le correnti del vento, lo avrebbero sostenuto con generosità.

Qualche tempo dopo – questo lo so per certo – anch’io avrei spiccato il volo. Dall’alto. Nonostante la paura.

Kupka

Dal mio vecchio appartamento ho portato con me soltanto un paio di quadri. Dietro uno di essi c’è una storia che vale la pena di raccontare.

Nel 2015 feci un viaggio di alcuni giorni a Marsiglia, in Francia, per due concerti che avrebbero avuto luogo a pochi giorni uno dall’altro. Una mattina visitai il museo Cantini, fra l’altro molto vicino all’ostello dove risiedevo.

Fra i tanti dipinti esposti (ricordo fra l’altro una bellissima mostra temporanea dedicata ad André Masson) trovai un quadro di František Kupka, “Baby Steel 2”:

(click per ingrandire)

František Kupka è stato un pittore polacco vissuto nella prima metà del Novecento, tra i principali fautori del movimento artistico noto come Orfismo:

Si tratta di una pittura fortemente evocativa (da cui il riferimento mitico ad Orfeo, musicista e poeta), che Apollinaire definisce come “…un piacere estetico puro, una costruzione che colpisce i sensi e un significato sublime, ossia il soggetto. È arte pura”.
Gli orfisti si pongono criticamente nei confronti del Cubismo, dal quale pure derivano il principio della scomposizione della forma e l’analisi dell’immagine da più punti di vista, sottraendosi tuttavia ad una certa rigidezza e staticità del risultato finale.
Una peculiarità dell’Orfismo è l’introduzione del movimento nel processo di scomposizione, che attua una sintesi in termini di maggior omogeneità dei vari momenti statici simultaneamente proposti anche dal Cubismo, ma qui unificati da una forza dinamica ad andamento rotatorio molto vicina alla definizione di spazio-tempo del Futurismo italiano.

Vilma Torselli, “Orfismo o Cubismo orfico, il recupero del colore” (rid.)

Ecco: queste forme metalliche evocarono in me, da subito, i modi in cui il Futurismo, all’inizio del secolo scorso, visualizzava la nascente tecnologia. Ruote e ingranaggi come emblemi di un movimento talvolta impetuoso; sempre, però, guidato da una volontà ordinatrice, quella umana.

Tornato in Italia, cercai una riproduzione di questo dipinto, purtroppo senza fortuna. Durante una di queste ricerche, però, mi imbattei in un’altra opera di Kupka, “Synthesis”:

(click per ingrandire)

Questo quadro, oggi, è appeso in una mia stanza. Mi piace pensare che descriva il processo dell’intuizione logica e intellettuale. Che parli, in un certo senso, del mio lavoro di ogni giorno.

Faticoso, come sembra emergere dal rumore e dal fragore dei tanti ingranaggi che si scontrano e si incastrano tra loro; ma al contempo felicemente creativo, quando muove – in quella che è la sintesi – a riunire le logiche nella logica; il molteplice nell’unità.