Ho saputo di recente che L. non c’è più.

Per un certo periodo è stata la mia insegnante di meditazione. Piccola di statura, parlava parole minime, che però – una ad una – si incastonavano nel diamante di un discorso meticoloso, levigato e congruente. E fiducioso, eternamente fiducioso, nell’uomo e nel valore dell’impegno in ogni cosa che si fa.

Una volta, se ricordo bene, mi raccontò che era stata tra le prime donne, in Sicilia, a laurearsi in Ingegneria. Allora mi divertii a immaginarla nel suo lavoro («È attraverso il lavoro che si restituisce alla collettività ciò che si ha ricevuto»), a progettare, costruire. Entusiasta, lenta e precisa, in tempi che accoglievano la lentezza come virtù.

Raramente mancavo alle sue lezioni, al punto che, qualche volta, siamo stati soltanto io e lei. Ricorderò sempre quei momenti: quella grande sala era lì solo per noi e ogni cosa sembrava importante. Era il momento giusto per essere presente a me stesso.

Era da molto che non la sentivo. Mi sono detto tante volte: «Adesso la chiamo». Ma per dirle cosa? Parole di pura circostanza?

E poi, penso che, pur nella sua composta umiltà, avesse nozione della mia grande riconoscenza.